Emilia Clarke ha raccontato in esclusiva al Newyorker, cosa le è successo agli inizi di Game of Thrones. Non uno ma ben due aneurismi.
Abbiamo tradotto direttamente il testo riportato nell’articolo, se volete leggere l’originale lo trovate qui.
Avevo appena finito le riprese della prima stagione di “Game of Thrones”, quando fui colpita dal primo di due aneurismi.
Proprio quando tutti i miei sogni d’infanzia sembravano avverarsi, ho quasi perso la testa e poi la vita. Non ho mai raccontato questa storia pubblicamente, ma ora è giunto il momento.
Era l’inizio del 2011. Avevo appena finito le riprese della prima stagione di Game of Thrones, una nuova serie HBO basata sui romanzi di George RR Martin, “Cronache del ghiaccio e del fuoco”. Con quasi nessuna esperienza professionale alle spalle, mi fu assegnato il ruolo di Daenerys Targaryen, nota anche come Khaleesi del Grande Mare d’Erba, Signora di Roccia del Drago, Distruttrice di Catene, Madre dei Draghi. Daenerys, giovane principessa, viene venduta in matrimonio a un signore della guerra Dothraki alquanto muscoloso chiamato Khal Drogo. La sua è una vicenda lunga, che si dipana per otto stagioni; basta affermare che cresce di importanza e di forza. Diventa una figura di potere e di padronanza di sé. In breve tempo, le ragazze ad Halloween iniziano a indossare parrucche biondo platino e abiti fluenti per essere Daenerys Targaryen.
I creatori dello show, David Benioff e DB Weiss, hanno dichiarato che il mio personaggio è un concentrato di Napoleone, Giovanna d’Arco e Lawrence d’Arabia. Eppure, nelle settimane successive alla conclusione delle riprese della prima stagione, nonostante l’entusiasmo di una campagna pubblicitaria incombente e della premiere di stagione, a stento mi sentivo pervadere da uno spirito di conquista. Ero terrorizzata. Spaventata dall’attenzione su di me, da un business che a malapena comprendevo, terrorizzata all’idea di dover ripagare la fiducia che i creatori di “Games of Thrones” avevano riposto in me. Mi sentivo esposta, sotto ogni punto di vista. Nel primo episodio, sono apparsa nuda e, da quella prima intervista in poi, mi hanno fatto sempre la stessa domanda, sulla falsariga di “Interpreti una donna così forte, eppure ti togli i vestiti. Perché?” Nella mia testa, rispondevo: “Quanti uomini devo uccidere per dimostrare il mio valore?”
Per alleviare lo stress, lavoravo con un allenatore. Dopotutto, ero ormai diventata un’attrice televisiva ed è questo che fanno gli attori televisivi. Ci alleniamo. La mattina dell’11 febbraio 2011, mi stavo vestendo negli spogliatoi di una palestra a Crouch End, a nord di Londra, quando iniziai a sentire un forte mal di testa. Ero così stanca che riuscii a malapena a mettermi le scarpe da ginnastica. Quando iniziai l’allenamento, dovetti fare un grande sforzo per riuscire a completare i primi esercizi.
Poi il mio allenatore mi chiese di eseguire la posizione dell’asse e immediatamente ebbi la sensazione che una fascia elastica mi stesse stringendo il cervello. Cercai di ignorare il dolore e di continuare con l’esercizio, ma non ci riuscivo. Dissi al mio allenatore che avevo bisogno di una pausa. In qualche modo, quasi strisciando, riuscii ad arrivare nello spogliatoio. Raggiunsi il bagno, caddi in ginocchio e cominciai a sentirmi molto male. Nel frattempo, il dolore lancinante e costrittivo peggiorava sempre di più.
In un certo senso, sapevo cosa stava accadendo: il mio cervello era danneggiato.
Per alcuni istanti, cercai di allontanare via il dolore e la nausea. Mi dicevo: “Non rimarrò paralizzata”. Iniziai a muovere le dita delle mani e dei piedi per assicurarmi che fosse così. Per mantenere viva la mia memoria, cercai di ricordare, tra le altre cose, alcune battute di “Game of Thrones”.
Sentii la voce di una donna che mi chiedeva se stessi bene. No, non stavo bene. Venne ad aiutarmi e mi girò su un lato, nella posizione di sicurezza. Poi tutto diventò allo stesso tempo rumoroso e sfocato. Ricordo il suono di una sirena, un’ambulanza. Sentivo voci nuove, qualcuno che diceva che il mio polso era debole. Stavo vomitando bile. Qualcuno trovò il mio telefono e chiamò i miei genitori, che vivono nell’Oxfordshire, dicendo loro di recarsi al pronto soccorso dell’ospedale di Whittington.
Una nebbia di incoscienza si posò su di me. Dall’ambulanza, venni trasportata su un lettino in un corridoio saturo di odore di disinfettante e di rumori di persone in difficoltà. Poiché nessuno sapeva cosa ci fosse che non andasse in me, i medici e le infermiere non potevano darmi alcun farmaco per alleviare il dolore.
Alla fine, mi mandarono a fare una risonanza magnetica, una scansione del cervello. La diagnosi fu rapida e inquietante: emorragia subaracnoidea (SAH), un tipo di ictus potenzialmente fatale, causato da un sanguinamento nello spazio circostante il cervello. Avevo un aneurisma, una rottura arteriosa. Come appresi poi più tardi, circa un terzo dei pazienti affetto da SAH muore immediatamente o subito dopo. I pazienti che sopravvivono devono essere sottoposti a trattamento urgente per sigillare l’aneurisma, in quanto vi è un rischio molto elevato di un secondo sanguinamento, spesso fatale. Se fossi sopravvissuta e fossi riuscita ad evitare terribili deficit, avrei avuto bisogno di un intervento urgente. E, anche così, non c’erano garanzie.
Venni portata in ambulanza al National Hospital for Neurology and Neurosurgery, un bell’edificio vittoriano in mattoni rossi nel centro di Londra. Era notte. Mia madre dormiva in ospedale accanto a me, accasciata su una sedia, mentre io continuavo ad addormentarmi e a svegliarmi, in uno stato di stordimento drogato, dolore lancinante e incubi persistenti.
Ricordo che mi fu detto che dovevo firmare una liberatoria per l’intervento chirurgico. Un’operazione al cervello? Ero una donna molto impegnata, non avevo certo tempo per un’operazione al cervello. Ma alla fine dovetti rassegnarmi e firmare. E poi mi ritrovai incosciente. I chirurghi ci impiegarono tre ore a sistemarmi il cervello.
Non sarebbe stato il mio ultimo intervento chirurgico, e nemmeno il peggiore. Avevo ventiquattro anni.
Ero cresciuta a Oxford e raramente mi ero soffermata a pensare alla mia salute. Non pensavo ad altro che a recitare. Mio padre era tecnico del suono. Aveva lavorato a produzioni di “West Side Story” e “Chicago” nel West End. Mia madre era, ed è, una donna d’affari, il vicepresidente marketing per una società di consulenza gestionale. Non eravamo ricchi, ma io e mio fratello andammo alle scuole private. I nostri genitori, che volevano il meglio per noi, faticarono a pagarci le tasse universitarie.
Non ricordo bene quando decisi di fare l’attrice. Mi è stato detto che avevo circa tre o quattro anni. Quando accompagnavo mio padre a teatro, rimanevo incantata dalla vita dietro le quinte: il chiacchiericcio, gli oggetti di scena, i costumi, tutto il chiasso insistente e sussurrato nell’oscurità quasi totale. Quando avevo tre anni, mio padre mi portò a vedere una produzione di “Show Boat”. Nonostante fossi solitamente una bambina rumorosa e ansiosa, rimasi a sedere in silenzio, rapita tra il pubblico per più di due ore. Quando il sipario si abbassò, mi misi in piedi sulla poltrona e iniziai a battere le mani con fervore.
Ero follemente innamorata. A casa, guardai un VHS di “My Fair Lady” così tante volte che si spezzò dall’usura. Per me la storia di Pigmalione era un segno di come, con tanta pratica e un buon regista, si potesse diventare qualcun altro. Non credo che mio padre fosse contento quando annunciai che volevo fare l’attrice. Conosceva un sacco di attori e, nella sua mente, erano regolarmente nevrotici e disoccupati.
La mia scuola, a Oxford, la Squirrel School, era idilliaca, disciplinata e piacevole. Quando avevo cinque anni, ottenni la parte principale in una rappresentazione. Quando arrivò il momento di salire sul palco e recitare le mie battute, dimenticai tutto. Me ne stavo ferma lì, al centro della scena, assolutamente immobile, assorbendo tutto ciò che mi circondava. In prima fila, gli insegnanti cercavano di aiutarmi mimandomi le battute. Ma io rimanevo lì, senza paura, molto calma. È uno stato mentale che mi ha accompagnato per tutta la mia carriera. Oggigiorno, posso essere su un tappeto rosso con migliaia di macchine fotografiche che scattano foto e io rimango impassibile. Certo, mettimi ad una cena con altre sei persone e quello è un altro paio di maniche.
Con il tempo, migliorai nella recitazione. Riuscivo persino a ricordarmi le battute. Ma non ero certo un prodigio. Quando avevo dieci anni, mio padre mi portò a un provino nel West End per una produzione di “The Goodbye Girl” di Neil Simon. Quando entrai, mi resi conto che ogni ragazza che stava provando la parte cantava una canzone di “Cats”. L’unica cosa che riuscii a tirare fuori fu una canzone folk inglese, “Donkey Riding”. Dopo avermi ascoltato con pazienza, qualcuno mi chiese, “Che ne dici di qualcosa di più attuale?” Cantai “Wannabe” delle Spice Girls. Le mani di mio padre gli coprivano praticamente tutta la faccia. Non ottenni la parte e penso fu una benedizione. Mio padre disse: “Sarebbe stato difficile leggere qualcosa di negativo su di te sul giornale”.
Ma tenni duro. Nelle produzioni scolastiche, interpretai Anita in “West Side Story”, Abigail in “The Crucible”, una delle streghe in “Macbeth”, Viola in “Twelfth Night”. Dopo la scuola secondaria, mi presi un anno sabbatico, durante il quale lavorai come cameriera e viaggiai in lungo e in largo per l’Asia. Poi iniziai a frequentare il Drama Center di Londra per conseguire la laurea. In qualità di attori alle prime armi, studiavamo di tutto, da “The Cherry Orchard” a “The Wire”. Non ottenni le parti da ragazzine ingenue. Quelle andarono alle ragazze alte, longilinee, incredibilmente bionde. Venni scritturata come madre ebrea in “Awake and Sing!” Avresti dovuto sentire il mio accento del Bronx.
Dopo la laurea, feci una promessa: per un anno, avrei accettato solo ruoli promettenti.
Pagavo l’affitto lavorando in un pub, in un call center e in un oscuro museo, a dire alla gente che “i bagni sono proprio sulla destra”. Il tempo sembrava non passare mai. Ma ero determinata: un anno senza produzioni pessime, niente rappresentazioni sopra un bar.
Nella primavera del 2010, il mio agente mi chiamò per dirmi che a Londra si stavano tenendo delle audizioni per una nuova serie della HBO. Il pilot di “Game of Thrones” non era piaciuto e volevano ingaggiare nuovi attori per alcuni dei personaggi, tra cui Daenerys. Cercavano una donna con i capelli biondo platino, circondata da un alone di mistero ultraterreno. Sono un’inglese bassa e tutta curve, con i capelli scuri. Peggio per loro. Per prepararmi, imparai queste strane battute per due scene, una dell’episodio 4, in cui vengo colpita da mio fratello, e una dell’episodio 10, in cui cammino dentro un fuoco e sopravvivo, illesa.
In quei giorni, mi ritenevo una persona sana. A volte mi girava un po’ la testa, perché soffrivo spesso di pressione bassa e avevo una bassa frequenza cardiaca. Ogni tanto mi venivano le vertigini e svenivo. Quando avevo quattordici anni, ebbi un’emicrania che mi costrinse a letto per un paio di giorni e alla scuola di recitazione a volte mi capitava di svenire. Ma mi sembrava tutto gestibile, parte dello stress del fare l’attore e della vita in generale. Col senno di poi, credo che fossero i primi segnali di allarme di ciò che stava per accadere.
Declamai le mie battute di “Game of Thrones” in un piccolo studio a Soho. Quattro giorni dopo, ricevetti una chiamata. Apparentemente, l’audizione non era stata un disastro. Mi venne chiesto di volare a Los Angeles tre settimane dopo per fare l’audizione davanti a Benioff, Weiss e ai dirigenti della rete. Iniziai a prepararmi intensamente. Mi fecero volare in business class. Ne approfittai per rubare tutto il tè che davano gratuitamente nella lounge. All’audizione, cercai di non notare un’altra attrice – alta, bionda, slanciata, bellissima – che mi passò di fianco. Lessi due scene in un auditorium buio, davanti ad un pubblico di produttori e dirigenti.
Quando finii, chiesi: “Posso fare qualcos’altro?” David Benioff mi disse: “Potresti ballare”. Non volendo deludere nessuno, feci il ballo del qua-qua e il robot. Con il senno di poi, avrei potuto rovinare tutto. Non sono una grande ballerina.
Mentre uscivo dall’auditorium, mi inseguirono dicendomi: “Congratulazioni, principessa!” Avevo avuto la parte.
Riuscii a malapena a riprendere fiato. Tornai in albergo e lì alcune persone mi invitarono ad una festa sul tetto. “Certo, volentieri!” dissi loro. Invece andai nella mia stanza, mi misi a mangiare Oreo e a guardare “Friends” e iniziai a chiamare tutti quelli che conoscevo.
Gli interventi
Il primo intervento chirurgico era considerato “minimamente invasivo”, il che significa che non mi aprirono il cranio. Piuttosto, usando una tecnica chiamata sonda endovascolare, il chirurgo introdusse un filo in una delle arterie femorali, nell’inguine; il filo venne spinto verso l’alto, attorno al cuore e al cervello e lì sigillarono l’aneurisma.
L’operazione durò tre ore. Quando mi svegliai, il dolore era insopportabile. Non avevo idea di dove fossi. Il mio campo visivo era limitato. Avevo un tubo in gola e sentivo nausea e sete. Dopo quattro giorni uscii da terapia intensiva e mi comunicarono che il mio più importante traguardo ora era di arrivare a due settimane. Se ce l’avessi fatta così a lungo con poche complicazioni, le mie possibilità di ripresa sarebbero state alte.
Una notte, dopo aver superato quel punto cruciale, un’infermiera mi svegliò e, come esercizio cognitivo, mi chiese: “Come ti chiami?” Il mio nome completo è Emilia Isobel Euphemia Rose Clarke. Ma in quel momento non riuscivo a ricordarlo. Invece, mi uscirono dalla bocca parole senza senso e caddi in preda al panico.
Non avevo mai provato una paura del genere – un senso di tragedia dietro l’angolo. Vedevo la vita che mi attendeva e mi rendevo conto che non valeva la pena viverla. Io sono un attrice; devo ricordare le mie battute. E non riuscivo nemmeno a ricordare il mio nome.
Soffrivo di una condizione chiamata afasia, una conseguenza del trauma subito dal mio cervello. Nonostante borbottassi sciocchezze, mia madre mi faceva la grande gentilezza di ignorarlo e cercava di convincermi che ero perfettamente lucida. Ma sapevo di stare balbettando. Nei miei momenti peggiori, avrei voluto staccare la spina. Chiesi allo staff medico di lasciarmi morire. Il mio lavoro – tutti i miei sogni su come sarebbe stata la mia vita – ruotavano intorno al linguaggio, alla comunicazione. Senza quello, ero persa.
Venni rimandata in terapia intensiva e, dopo circa una settimana, l’afasia passò. Ero di nuovo in grado di parlare. Conoscevo il mio nome, tutti e cinque. Ma ero anche consapevole del fatto che intorno a me c’erano persone che non sarebbero mai uscite dalla terapia intensiva. Mi veniva ricordato in continuazione quanto fossi fortunata. Un mese dopo essere entrata in ospedale, mi dimisero. Non desideravo altro che un bagno e aria fresca. Dovevo rilasciare interviste per la stampa e, nel giro di poche settimane, tornare sul set di “Game of Thrones”.
Tornai alla mia vecchia vita, ma, mentre ero in ospedale, mi dissero che avevo un aneurisma più piccolo nell’altro lato del mio cervello che poteva “scoppiare” in qualsiasi momento. I dottori dissero, tuttavia, che era piccolo ed era possibile che sarebbe rimasto dormiente e innocuo per lungo tempo. L’avrebbero tenuto sotto controllo. Il recupero però non fu immediato. Dovevo ancora affrontare il dolore e la morfina mi aiutava a tenerlo a bada. Parlai con i miei capi di “Game of Thrones” delle mie condizioni, ma non volevo che diventasse argomento di discussione pubblica. Lo spettacolo doveva continuare!
Dopo la prima operazione
Durante le riprese della seconda stagione
Ancor prima di iniziare le riprese della seconda stagione, mi sentivo profondamente insicura. Ero spesso così stordita, così debole, che pensavo sarei morta. Alloggiavo in hotel a Londra durante un tour pubblicitario e ricordo vividamente che pensavo di non riuscire a tenere il passo, non riuscivo a pensare né a respirare, figuriamoci cercare di essere affascinante. Sorseggiavo la morfina tra le interviste. Il dolore era sempre lì e la stanchezza che provavo era paragonabile al peggior affaticamento mai provato, moltiplicato per un milione. E, poi ammettiamolo, sono un’attrice. La vanità fa parte del lavoro. Ho passato troppo tempo a pensare a come apparire. Come se non bastasse, avevo la sensazione di sbattere la testa ogni volta che provavo a salire su un taxi.
Le reazioni alla prima stagione furono, naturalmente, eccezionali, sebbene allora sapessi ben poco di come il mondo tenesse il punteggio. Quando un amico mi chiamò per dirmi, “Sei al primo posto su IMDb!” io gli chiesi, “Che cos’è IMDb?”
Il primo giorno di riprese della seconda stagione, a Dubrovnik, continuavo a ripetermi: “Sto bene, sono giovane, sto bene”. Mi buttai nel lavoro. Ma, dopo quel primo giorno di riprese, riuscii a malapena a tornare in hotel prima che crollassi dallo sfinimento. Sul set, non persi un colpo, ma feci molta fatica. La seconda stagione sarebbe stata la peggiore per me. Non sapevo cosa stesse facendo Daenerys. Ad essere sincera, ogni minuto di ogni giorno pensavo che sarei morta.
Nel 2013, dopo aver terminato la terza stagione, accettai un lavoro a Broadway, Holly Golightly. Le prove furono fantastiche, ma presto fu chiaro che non sarebbe stato un successo. Il tutto durò solo un paio di mesi.
Quando ero ancora a New York per lo spettacolo, a cinque giorni dalla scadenza della mia assicurazione del Sindacato attori, mi recai a fare una risonanza magnetica, una cosa che ormai dovevo fare regolarmente. L’aneurisma che avevo nell’altra parte del cervello era raddoppiato e il dottore disse che ce ne dovevamo “occupare”. Mi venne promessa un’operazione relativamente semplice, più facile dell’ultima volta. Non molto tempo dopo, mi ritrovai in una stanza privata di un ospedale di Manhattan. I miei genitori erano lì. “Ci vediamo tra due ore”, disse mia madre, e venni operata, un altro viaggio su per l’arteria femorale verso il mio cervello. Nessun problema.
La seconda operazione
Il problema però ci fu. Quando mi svegliarono, urlavo dal male. La procedura era fallita. Ebbi un vasto sanguinamento e i medici mi fecero capire che le mie possibilità di sopravvivenza erano scarse se non fossero intervenuti di nuovo. Questa volta avevano bisogno di accedere al mio cervello alla vecchia maniera attraverso il cranio. E dovevano operarmi immediatamente. Il recupero fu ancora più doloroso di quanto non fosse stato quello dopo il primo intervento chirurgico. Sembrava avessi affrontato una guerra ancora più orribile di quelle affrontate da Daenerys. Al termine dell’operazione avevo un drenaggio che mi usciva dalla testa. Parti del cranio erano state sostituite con del titanio. Ora non si vede più la cicatrice che dal mio scalpo curva verso l’orecchio, ma all’inizio non sapevo che non sarebbe stata visibile. E soprattutto ero costantemente preoccupata per le perdite cognitive o sensoriali. Avrebbe colpito la concentrazione? La memoria? La visione periferica? Ora dico alla gente che ciò di cui mi ha privato è il buon gusto in fatto di uomini. Ma, naturalmente, nulla di tutto ciò sembrava remotamente divertente all’epoca.
Trascorsi di nuovo un mese in ospedale e, in certi momenti, mi sembrava di perdere ogni speranza. Non riuscivo a guardare nessuno negli occhi. Avevo un’ansia terribile, attacchi di panico. Mi era stato insegnato di non dire mai: “Non è giusto”; mi era stato insegnato che c’è sempre qualcuno che sta peggio di te. Ma, vivere questa esperienza per la seconda volta mi ha fatto andare via ogni speranza. Mi sentivo un guscio vuoto. Tanto che ora ho difficoltà a ricordare nel dettaglio quei giorni bui. La mia mente li ha bloccati. Ma ricordo che ero convinta che non ce l’avrei fatta. E, per di più, ero certa che si sarebbe scoperto della mia malattia. E così avvenne, per un breve momento. Sei settimane dopo l’intervento, il National Enquirer pubblicò un breve articolo. Un giornalista mi chiese delucidazioni in merito e io negai.
Ma ora, dopo aver mantenuto il silenzio per tutti questi anni, ho deciso di dire tutta la verità. Per favore, credimi: so di non essere l’unica e di non essere sola. Tante persone hanno sopportato ben di peggio e senza usufruire delle cure che ho avuto la fortuna di ricevere. Qualche settimana dopo quel secondo intervento, andai con altri membri del cast al Comic-Con, a San Diego.
I fan del Comic-Con sono lo zoccolo duro; non vuoi deluderli. C’erano diverse migliaia di persone tra il pubblico e, poco prima che iniziassimo a rispondere alle domande, fui colpita da un orribile mal di testa. Era tornato quel maledetto senso di paura così familiare. Ho pensato, finisce qui. Il mio tempo è scaduto. Ho ingannato la morte due volte e ora viene a prendermi. Mentre scendevo dal palco, il mio addetto stampa mi guardò e mi chiese cosa c’era che non andava. Glielo dissi, ma lei disse che un giornalista di MTV mi stava aspettando per un’intervista. Pensai, se decido di andare, potrebbe succedere in diretta televisiva.
Ma sopravvissi. A MTV e a molto altro ancora. Negli anni successivi il mio secondo intervento, sono guarita oltre le mie più irragionevoli speranze.
Ora sono al cento per cento. Oltre al mio lavoro come attrice, ho deciso di fondare un ente di beneficenza in collaborazione con partner nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Si chiama SameYou e ha lo scopo di fornire un trattamento per le persone che si stanno riprendendo da lesioni cerebrali e ictus. Sento infinita gratitudine nei confronti di mia madre e mio fratello, dei miei medici e infermieri, dei miei amici. Ogni giorno, mi manca mio padre, che è morto di cancro nel 2016. Non potrò mai ringraziarlo abbastanza per avermi tenuto la mano fino alla fine.
C’è qualcosa di gratificante, che va al di là della fortuna, nell’arrivare alla fine di “Game of Thrones”. Sono così felice di essere qui per vedere la fine di questa storia e l’inizio di ciò che verrà dopo.
Emilia per annunciare di aver raccontato la sua storia ha pubblicato un video su instagram (che vi linkiamo sotto) e poco dopo ne ha pubblicato un secondo di ringraziamento per i messaggi ricevuti e il supporto dei fan.
Anche Lena Headey ha scritto su instagram un messaggio dedicato a lei.
Ringraziamo per la traduzione: Monia R.
Editing: Quinn