“GRAZIA”
(MERCY)
Si alzò con un sussulto, senza sapere chi fosse, o dove.
L’odore di sangue era forte nelle sue narici… O forse era il suo incubo, che ancora la tormentava? Aveva avuto di nuovo sogni di lupi, sogni in cui correva attraverso oscure foreste di pini con un immenso branco dietro di lei, concentrato sull’odore della preda.
La stanza era in mezz’ombra, grigia e cupa. Tremante, si alzò a sedere sul letto e si passò una mano sullo scalpo. Una setola di corti capelli stopposi si strusciò contro il suo palmo. Devo radermi prima che che Izembaro mi veda. Grazia, sono Grazia, e stanotte sarò stuprata e uccisa. Il suo vero nome era Mercedene, ma era Grazia che tutti l’avevano sempre chiamata.
Eccetto nei sogni. Fece un respiro profondo per calmare l’ululato nel suo cuore, cercando di ricordare maggiori dettagli di quello che aveva sognato, ma per la maggior parte se n’erano andati. C’era sangue, una luna piena sopra la sua testa, e un albero che la guardava, mentre correva.
Aveva lasciato aperte le imposte di modo che il sole del mattino l’avrebbe svegliata. Ma non c’era sole al di fuori della finestra della piccola stanza di Grazia, solo un muro di grigia nebbia evanescente. L’aria s’era fatta fredda… Per fortuna; altrimenti avrebbe dormito tutto il giorno. Sarebbe stato come se Grazia avesse dormito durante il suo stesso stupro.
Aveva la pelle d’oca alle gambe. Il copriletto le si era attorcigliato attorno come un serpente. Lo svolse, lanciò il lenzuolo sul piano del tavolo e si affacciò nuda alla finestra. Braavos era persa nella nebbia. Poteva vedere l’acqua verde del piccolo canale di sotto, la strada lastricata di pietre che si snodava sotto il suo palazzo, due archi del ponte coperto di muschio… Ma l’estremo più distante del ponte svaniva nel grigio, e di tutte le costruzioni lungo il canale rimanevano solo poche vaghe luci. Sentì un vago schiocco d’acqua quando una nave serpente emerse sotto l’arco centrale del ponte. “Che ore sono?” Grazia urlò di sotto all’uomo che si trovava sulla coda emersa della nave, e la stava spingendo avanti con la sua asta.
Il marinaio alzò lo sguardo, cercando l’origine della voce. “Le 4, stando al ruggito del Titano.” Le sue parole riecheggiarono a vuoto lungo le mulinanti acque verdi e i muri di palazzi occultati alla vista.
Non era in ritardo, non ancora, ma non doveva temporeggiare. Grazia era un’anima felice e un’assidua lavoratrice, ma raramente puntuale. Quello non sarebbe servito quella notte. L’ambasciatore da Westeros era atteso al Cancello per la sera, e Izembaro non sarebbe stato dell’umore adatto per sentire scuse, nemmeno se le avesse servite con un piacevole sorriso.
Aveva riempito la bacinella con l’acqua del canale la scorsa notte prima di andare a dormire, preferendo l’acqua salmastra a quella piovana verde e melmosa che ristagnava nella cisterna di fuori. Vi immerse un pezzo di stoffa ruvida e si lavò dalla testa ai piedi, stando in equilibrio su una gamba alla volta per pulire i suoi piedi callosi. Dopodiché prese il suo rasoio. Uno scalpo liscio aiuta le parrucche a calzare meglio, sosteneva Izembaro.
Si rasò, indossò la biancheria, e scivolò in un informe vestito marrone di lana. uno dei suoi calzini avrebbe necessitato di una cucita, vide mentre se lo metteva. Avrebbe chiesto alla Dentice un aiuto; il suo modo di cucire era talmente scarso che la signora del guardaroba aveva pietà di lei. Altrimenti potrei rubacchiarne un buon paio dal guardaroba. Questo sarebbe stato rischioso, però. Izembaro odiava quando i guitti indossavano i suoi costumi in strada. Eccetto per Wendeyne. Dai al cazzo di Izembaro una succhiatina e una ragazza può vestire qualunque costume desideri. Grazia non era folle fino a questo punto. Daena l’aveva messa in guardia: “Le ragazze che si incamminano per quella strada finiscono alla Nave, dove ogni uomo nel pubblico sa che può ottenere qualunque delizia desideri tra quelle che può vedere sul palco, se il suo borsello é abbastanza gonfio.”
I suoi stivali erano una rappezzatura di vecchi pezzi di cuoio marrone uniti con lustrini e rotti dall’usura, la sua cintura una corda di canapa pitturata di blu. Se la legò attorno alla vita, e appese un coltello al suo fianco destro e un sacchetto di monete al sinistro. Per ultimo si tirò il mantello sulle spalle. Era un vero mantello da guitto, lana color porpora foderato con seta rossa, con un cappuccio per tenere la pioggia al di fuori, e anche tre tasche segrete. Nascose alcune monete in una di queste, una chiave di ferro in un’altra, e una lama nell’ultima. Una vera lana, non un coltellino da frutta come quello al suo fianco, ma questo non apparteneva a Grazia, non più degli altri tesori che possedeva. Il piccolo coltello apparteneva a Grazia. Era fatto per mangiare frutta, per sorridere e scherzare, per lavorare duro e fare quello che le veniva detto.
“Grazia, Grazia, Grazia,” cantava mentre scendeva le scale di legno, fin alla strada. Il corrimano era scheggiato, i gradini ripidi, e c’erano cinque rampe da fare, ma quello era il motivo per cui poté avere la stanza a un prezzo così basso. Quello, e il sorriso di Grazia. Poteva essere calva e magra come un chiodo, ma Grazia aveva un bel sorriso, e una certa grazia. Persino Izembaro concordava che lei fosse graziosa. Non era lontana dal Cancello a volo di corvi, ma per ragazze con piedi al posto di ali la strada era più lunga. Braavos era una città intricata. Le strade erano intricate, i vicoli erano intricati, e i canali erano i più intricati di tutti. Spesso preferiva andare andare per la via lunga, giù nella strada dello Straccivendolo lungo il Porto Esterno, dove aveva il mare in fronte a sé e il cielo al di sopra, e una completa visione dalla grande laguna all’arsenale e dei pendii pieni di pini dello scudo di Sellagoro. I marinai l’avrebbero salutata mentre attraversava i moli, chiamandola dai ponti delle incatramate baleniere ibbenesi e dalle caracche dalla grande poppa di Westeros. Grazia non riusciva sempre a capire le loro parole, ma sapeva quello che volevano dire. Qualche volta sorrideva loro di rimando e rispondeva che l’avrebbero potuta trovare al Cancello, se avessero avuto i soldi.
La via lunga inoltre la portava attraverso il Ponte degli Occhi con le sue facce di pietra scolpite. Dall’alto della sua campata, poteva vedere attraverso gli archi e guardare tutta la città: le cupole verdi di rame della sala della verità, gli alberi delle navi che spuntavano come una foresta dal Porto Porpora, le alte torri dei potenti, il fulmine dorato che ruotava su se stesso in cima al palazzo del Signore del Mare… Persino le spalle bronzee del Titano, in lontananza dopo le acque verde scuro. Ma questo solamente quando il sole splendeva su Braavos. Se la nebbia era fitta non c’era nient’altro da vedere se non il grigiore, perciò oggi Grazia scelse la strada breve per risparmiare qualche nuova crepa ai suoi vecchi stivali consumati.
La nebbia sembrava tagliarsi davanti a lei e richiudersi subito dopo il suo passaggio. Il lastricato era umido e scivoloso sotto i suoi piedi. Sentiva un gatto pigolare lamentoso. Braavos era una buona città per i gatti, che se andavano in giro ovunque, specialmente di notte. Nella nebbia tutti i gatti sono grigi, pensò Grazia. Nella nebbia gli uomini sono tutti dei killer.
Non aveva mai visto una nebbia fitta come questa. Nei canali più larghi, i marinai si sarebbero scontrati con le loro navi serpente, incapaci di segnalare il loro passaggio in modo migliore che non offuscandosi a vicenda le luci dei palazzi ai loro lati.
Grazia passò accanto a un anziano con una lanterna diretto nella direzione opposta alla sua, e invidiò la sua luce. La strada era così cupa che poteva a malapena vedere dove stava mettendo i piedi. Nelle parti più umili della città, le case, negozi e magazzini si accalcavano insieme, giacendo l’uno sull’altro come amanti ubriachi, i loro depositi ai piani superiori così vicini da poter passare da un balcone all’altro con un solo passo. Le strade sottostanti divennero tunnel oscuri dove ogni passo echeggiava. I piccoli canali erano persino più pericolosi, considerando che molte delle case sul loro limitare avevano gli scarichi delle latrine sporgenti nelle acque.
Izembaro amava citare il discorso del Signore del Mare da “La Figlia Malinconica del Mercante”, la parte che recitava: “Qui si erge l’ultimo dei titani, sopra le spalle di pietra dei suoi fratelli”, ma Grazia preferiva la scena in cui il grasso mercante cagava sulla testa del Signore del Mare mentre questo gli passava sotto a bordo della sua chiatta oro e porpora. Solo a Braavos una cosa del genere sarebbe potuta succedere, si dice, e solo a Braavos il Signore del Mare e il marinaio avrebbero riso a crepapelle nel vederlo.
Il Cancello era vicino al limite della Città Sommersa, tra il Porto Esterno e il Porto Porpora. Un vecchio magazzino era bruciato qui e il terreno stava affondando un poco alla volta ogni anno, così la zona scese di valore. In cima alla roccia sommersa che faceva da fondamenta al magazzino, Izembaro costruì il suo intricato locale. La Cupola e la Lanterna Blu godevano di un miglior ambiente, diceva ai suoi guitti, ma qui tra i porti non avrebbero mai avuto carenza di marinai e puttane per riempire il salone. La Nave era lì vicina, e attirava sempre buone compagnie sulla banchina dove è stata ormeggiata per vent’anni, e, a sentir lui, anche il Cancello sarebbe sbocciato.
Il tempo dimostrò che aveva ragione. Il palcoscenico del Cancello si inclinò quando l’edificio fu ultimato, i costumi tendevano ad ammuffire, e nella cantina allagata si annidavano serpenti d’acqua, ma niente di tutto ciò preoccupava i guitti, fintanto che il locale era pieno.
L’ultimo ponte era fatto di corde e tavole grezze, e sembrava dissolversi nel nulla, ma era solo la nebbia. Grazia ci zampettò attraverso, i tacchi che ticchettavano sul legno. La nebbia si aprì davanti a lei come una tenda grigia e sbrindellata, per rivelarle il locale. Una lattiginosa luce gialla spillò fuori dalle porte, e Grazia poté sentire il vociare proveniente dall’interno. Accanto all’entrata, Brusco il grosso aveva dipinto sopra il titolo dell’ultimo show, e scritto “La Mano Insanguinata” al suo posto in grosse lettere rosse. Stava dipingendo anche una mano insanguinata sotto le parole, per quelli che non sapevano leggere. Grazia si fermò a dare un’occhiata. “È carina quella mano”, gli disse.
“Il pollice è storto”. Brusco lo tamburellò col suo pennello. “Il Re dei Guitti ha chiesto di te”.
“Era molto buio e ho dormito e dormito”. Quando Izembaro si proclamò per la prima volta “Re dei Guitti”, la compagnia prese un gusto perverso ad assaporare l’indignazione dei loro rivali della Cupola e della Lanterna Blu. Più tardi, comunque, Izembaro aveva cominciato a prendere il suo titolo troppo seriamente. “Interpreta solo re adesso,” disse Marro, ruotando gli occhi, “e se lo spettacolo non ha re in sé, presto non lo rappresenterà più del tutto.”
La Mano Insanguinata offriva due re, quello grasso e il ragazzo. Izembaro avrebbe interpretato il grasso. Non era una grossa parte,ma aveva un eccellente discorso mentre giaceva morente, e una splendida battaglia con un cinghiale demoniaco prima di esso. Phario Forel lo aveva scritto, la sua era la penna più sanguinaria di tutta Braavos.
Grazia trovò la compagnia assembrata dietro il palcoscenico,e scivolò nel retro tra Daena e la Dentice, sperando che il suo arrivo tardivo non venisse notato. Izembaro stava dicendo a tutti che si aspettava che il Cancello fosse pieno fino all’orlo quella sera, nonostante la nebbia. “Il Re di Westeros sta mandando un suo delegato per omaggiare il Re dei Guitti stanotte,” disse alla sua troupe. “E noi non deluderemo il nostro collega monarca.”
“Noi?” disse la Dentice, che creava tutti i costumi per i guitti. “Ce n’è più di uno, ora?”
“È abbastanza grasso da contare per due”, sussurrò Bobono. Tutte le compagnie di guitti avevano bisogno di un nano. Lui era il loro. Quando vide Grazia, le lanciò un’occhiata lasciva. “Oho,” disse, “Eccola qui. La ragazzina è tutta pronta per il suo stupro?” Bobono fece schioccare le labbra.
La Dentice gli diede una botta in testa. “Sta’ zitto”.
Il Re dei Guitti ignorò questa breve agitazione, stava ancora parlando, dicendo ai guitti quanto magnifici fossero tenuti ad essere. A parte l’inviato da Westeros, ci sarebbero stati degli ufficiali di Braavos nella folla questa sera, così come famose cortigiane. Non aveva intenzione di lasciarli andar via con una cattiva opinione del Cancello. “Peste colga chiunque mi deluderà,” promise, una minaccia presa in prestito dal discorso che il Principe Garin dà alla vigilia della battaglia ne “L’ira dei Signori dei Draghi”, la prima opera di Phario Forel.
Quando Izembro finì di parlare, meno di un’ora rimaneva prima dello show, e i guitti erano tutti frenetici e irritabili, di volta in volta. Il Cancello riecheggiò del suono del nome di Grazia.
“Grazia”, lo Straniero chiamò, “portami la fottuta colla, il mio corno si sta staccando”.
“Grazia”, esplose Izembaro il Grande in persona, “Che cosa ne hai fatto della mia corona, ragazza? Non posso fare il mio ingresso senza corona. Come potrebbero sapere che sono un re?”
“Grazia”, squittì Bobono il nano, “Grazia, qualcosa non va con i miei pantaloni, il mio cazzo continua a scappare fuori”.
Procurò la pasta adesiva e fissò il corno sinistro dello Straniero alla sua fronte. Trovò la corona di Izembaro nella latrina dove la lasciava sempre e lo aiutò a sistemare la sua parrucca, quindi corse con ago e filo dalla Dentice così che questa potesse cucire l’orlo di pizzo dietro alla toga di stoffa dorata che la regina avrebbe indossato nella scena del matrimonio.
E il cazzo di Bobono stava davvero penzolando di fuori. Era fatto per penzolare fuori, per lo stupro. Che cosa orribile, Grazia pensò mentre si inchinava davanti al nano per sistemarlo. Il cazzo era lungo un piede e spesso quanto il suo braccio, grosso abbastanza per poter essere visto anche dalla balconata più lontana. L’inchiostro aveva fatto uno scarso lavoro col cuoio, in effetti, il coso era di un rosa e bianco screziato, con una cappella bulbosa del colore della prugna. Grazia lo spinse di nuovo dentro le brache di Bobono e lo riallacciò. “Grazia”, cantò, quando lei lo ebbe legato ben stretto, “Grazia, Grazia, vieni nella mia stanza e fai di me un uomo”.
“Farò di te un eunuco se non la pianti di slacciarti da solo così che io debba smanettare col tuo scroto”.
“Siamo stati pensati per stare insieme, Grazia”, insistette Bobono. “Guarda, abbiamo giusto la stessa altezza”.
“Solo quando sono in ginocchio. Ti ricordi la tua prima battuta?” Era stato appena due settimane fa che il nano era capitombolato sul palco ubriaco fradicio e aveva aperto “L’Angoscia dell’Arconte” con l’osceno discorso de “La Lussuriosa Signora del Mercante”. Izembaro l’avrebbe scuoiato vivo se avesse combinato un altro casino del genere, fottendosene di quanto fosse difficile trovare un buon nano.
“Cosa dobbiamo inscenare, Grazia?” Bobono chiese innocentemente.
Mi sta prendendo in giro, pensò Grazia. Non é ubriaco stanotte, e conosce lo show alla perfezione. “Stiamo per fare la nuova Mano insanguinata di Phario, in onore dell’emissario dai Sette Regni”.
“Ora ricordo”. Bobono abbassò la sua voce a un gracidio sinistro. “Il dio dalle sette facce mi ha ingannato”, cominciò, ringhiando le parole. “Il mio nobile signore ha reso dell’oro più puro, e d’oro fece i miei fratelli, un ragazzo e una ragazza. Ma io sono fatto di stoffa più oscura, di ossa di sangue e di argilla, distorti in questa rude forma che vedi davanti a te”. Con questo, la afferrò per il petto, armeggiando per trovare un capezzolo. “Non hai seno. Come posso violentarti se non hai le tette?”
Lei prese il suo naso tra il pollice e l’indice e lo storse. “E tu non riavrai il naso finché non mi staccherai le mani di dosso”.
“Owwwwwww”, strillò il nano, lasciandola.
“Le tette mi cresceranno in un anno o due”. Grazia si alzò, per torreggiare sul piccolo uomo. “Ma a te non crescerà mai un nuovo naso. Pensaci su, prima di toccarmi lì”.
Bobono si strofinò il naso dolorante. “Non c’è bisogno di essere timidi. Ti violenterò molto presto”.
“Non fino al secondo atto”.
“Do sempre alle tette di Wendeyne una buona strizzata quando la stupro ne L’Angoscia dell’Arconte”, il nano reclamò. “Le piace, e piace anche al pubblico. Devi accontentare il pubblico”.
Quella era una delle “perle di saggezza” di Izembaro, come a lui piaceva chiamarle. Devi accontentare il pubblico. “Scommetto che al pubblico piacerebbe se strappassi via il cazzo del nano e martellassi la sua testa con quello”, Grazia replicò. “È qualcosa che di sicuro non hanno mai visto prima”. Dare sempre loro qualcosa che non avevano mai visto prima era un’altra delle “perle” di Izembaro, una a cui Bobono non aveva una risposta pronta da dare. “Ecco, sei a posto”, annunciò Grazia. “Ora vediamo se riesci a tenerlo nei pantaloni fino a quando non sarà richiesto”.
Izembaro la stava chiamando di nuovo. Stavolta non riusciva a trovare la sua lancia da cinghiale. Grazia la trovò per lui, aiutò Brusco il grande a indossare la sua uniforme da caccia, controllò i coltelli finti per essere certa che nessuno li avesse sostituiti con delle vere lame (qualcuno lo fece alla Cupola una volta, e un guitto morì), e versò a Lady Stork il goccino di vino che amava bere prima di ogni spettacolo. Quando tutte le grida di “Grazia, Grazia, Grazia” finalmente si spensero, si prese un momento per dare una sbirciatina in sala.
La sala era piena come mai l’aveva vista, la gente si stava già divertendo, scherzando e sgomitandosi, mangiando e bevendo. Vide un venditore ambulante vendere fette di formaggio, strappandole dalla forma con le dita ogniqualvolta trovava un acquirente. Una donna aveva una borsa di mele rugose. Otri di vino venivano passati di mano in mano, alcune ragazze stavano vendendo baci, e un marinaio stava suonando la cornamusa. L’ometto dallo sguardo malinconico chiamato Quill stava nel retro, venuto a vedere cosa poteva rubare per una delle sue commedie. Cossomo il Prestigiatore era anch’esso venuto, e al suo braccio c’era Yna, la puttana con un occhio solo dal Porto Felice, ma Grazia non poteva conoscere questi due, e loro non avrebbero potuto conoscere Grazia. Daena riconobbe alcuni regolari frequentatori del Cancello nella folla, e glieli fece notare; Dellono il tintore con la sua bianca faccia stressata e le mani macchiate di porpora, Galeo il salumiere nella sua mantella di cuoio ingrassato, l’alto Tomarro col suo animaletto, un ratto, sulla spalla. “Per Tomorro è meglio che Galeo non veda quel ratto”, avvertì Daena. “È l’unica carne che mette nelle sue salsicce, ho sentito dire”. Grazia si coprì la bocca e rise.
Anche le balconate si stavano riempiendo. Il primo e il terzo piano erano per mercanti, capitani e altre persone rispettabili. I braavosiani preferivano il quarto e più alto, dove i posti erano più economici. Era una profusione di colori sgargianti lassù, mentre di sotto regnavano sfumature più sobrie. Il secondo piano era stato diviso in palchi, dove i potenti potevano permettersi comfort e privacy, al sicuro lontano dalla volgarità tutt’attorno. Avevano la miglior vista sul palcoscenico, e servitori a portar loro cibo, vino, cuscini, qualunque cosa desiderassero. Era raro trovare la seconda balconata piena per più di metà al Cancello; il tipo di potenti che apprezzavano una serata di teatro erano maggiormente inclini a visitare la Cupola o la Lanterna Blu, dove l’offerta era considerata più sottile e poetica.
Stanotte era diverso però, senza dubbio grazie all’inviato da Westeros. In un palco sedevano tre scioni di Otharys, ognuno dei quali accompagnato da una famosa cortigiana; Prestayn sedeva solo, un uomo così anziano da chiedersi come avesse fatto a raggiungere il suo posto; Torone e Pranelis condividevano un palco, così come condividevano una scomoda alleanza: la Terza Spada stava ospitando una mezza dozzina di amici.
“Ho contato cinque ufficiali”, disse Daena.
“Bessaro è così grasso che dovresti contarlo doppio”, replicò Grazia, ridacchiando. Izembaro aveva anch’esso una bella pancetta, ma paragonato a Bessaro era affusolato come un salice. L’ufficiale era così grasso da aver bisogno di un posto speciale, tre volte più grande di una comune sedia.
“Sono tutti grassi, nella famiglia Reyaans”, disse Daena. “Addomi grossi quanto le loro navi. Avresti dovuto vedere il padre. Faceva sembrare questo piccolino. Una volta venne convocato nella Sala della Verità per votare, ma quando salì sulla sua chiatta, questa affondò”. Con una scrollata al gomito di Grazia, le disse: ”Guarda, il palco del Signore del Mare”. Il Signore del Mare non aveva mai visitato il Cancello, ma Izembaro gli aveva comunque riservato un palco, il più largo e opulente della casa. “Dev’essere per quell’emissario di Westeros. Hai mai visto vestiti come quelli addosso a un uomo anziano? E guarda, ha portato con sè la Perla Nera!”
L’emissario era snello e calvo, con un buffo ciuffo di barba grigia che gli cresceva sul mento. Il suo mantello era di velluto giallo, così come i suoi pantaloni. Il suo gilet era di un blu talmente acceso che quasi fece lacrimare gli occhi a Grazia. Sul suo petto uno scudo era stato ricamato con del filo giallo, e su di esso torreggiava un orgoglioso gallo blu composto di lapislazzuli. Una delle sue guardie lo aiutò a sedersi, mentre le altre due stavano dietro di lui nel retro del palco.
La donna con lui non poteva avere più di un terzo della sua età. Era così graziosa che le lampade sembravano bruciare più luminosamente al suo passaggio. Era vestita in una toga di pallida seta gialla, stupendamente in contrasto col marrone chiaro della sua pelle. I suoi capelli neri erano legati in una cuffia di rete d’oro filato, e una collana d’oro soffiato oscillava sopra il suo seno prominente. Mentre li guardavano, lei s’avvicinò all’emissario e gli sussurrò nell’orecchio qualcosa che lo fece ridere. “Dovrebbero chiamarla la Perla Marrone”, Grazia disse a Daena. “È più marrone che nera”.
“La prima Perla Nera era nera come l’inchiostro,” disse Daena. “Era una principessa pirata, figlia di un Signore del Mare e di una principessa delle Isole dell’Estate. Un re drago di Westeros la prese come sua amante”.
“Vorrei tanto vedere un drago”. Grazia disse malinconicamente. “Perchè l’ambasciatore ha una gallina sul petto?” Daena rispose stizzita: “Grazia, non sai niente? È il suo stemma. Nei Regni del Tramonto tutti i lord hanno uno stemma. Alcuni hanno i fiori, altri pesci, alcuni orsi, alci o altre cose. Vedi, le guardie dell’ambasciatore hanno il simbolo del leone”.
Era vero. C’erano quattro guardie; grossi uomini dall’aspetto duro vestiti di corazza di maglia, con pesanti spadoni westerosi a due mani inguainati ai loro fianchi. I loro mantelli cremisi erano contornati da spire d’oro, e leoni dorati con occhi di granato rosso chiudevano ogni mantello alla spalla. Quando Grazia guardò le facce al di sotto dei dorati elmi dalla cresta di leone, il suo stomaco ebbe un sussulto. Gli dei le avevano fatto un regalo. Le sue dita si artigliarono strettamente al braccio di Daena. “Quella guardia. Quella alla fine, dietro alla Perla Nera”.
“Chi é? Cosa sai di lui?”
“No”. Grazia era nata e cresciuta a Braavos, come avrebbe potuto conoscere degli westerosiani? ” É davvero… Beh, è proprio carino, non pensi?” Lo era, in qualche rozza maniera, anche se i suoi occhi duri.
Daena fece spallucce. “È molto vecchio. Non così vecchio come gli altri, ma…. Sarà sulla trentina. E di Westeros. Sono dei terribili selvaggi, Grazia. Meglio stare lontane da gente di quella specie”.
“Stare lontana?” Grazia ridacchiò. Era una ragazza col sorriso sempre pronto, Grazia. “No, devo vederlo da vicino”. Diede a Daena una strizzatina e disse: “Se la Dentice dovesse venire a cercarmi, dille che sono uscita a rileggere le mie battute un’altra volta”. Ne aveva poche, e per la maggior parte erano “Oh no, no no no”, e “non farlo, oh non farlo, non toccarmi!”, e “Per favore, mio signore, sono ancora vergine”, ma questa era la prima volta che Izembaro quantomeno le dava delle battute, quindi ci si aspettava che la povera Grazia la avrebbe studiate per bene.
L’emissario dai Sette Regni aveva portato due delle sue guardie nel suo palco, per stare dietro di lui e la Perla Nera, ma le altre due erano poste giusto al di fuori della porta per essere certi che non fosse disturbato. Stavano parlando a bassa voce nella lingua comune di Westeros, quando lei sgusciò dietro di loro nel buio corridoio. Non era una lingua che Grazia conosceva.
“Per i sette inferi, questo posto è umido”, sentì lamentarsi una guardia. “Sono congelato fino all’osso. Dove sono i fottuti alberi di arance? Ho sempre sentito dire che c’erano alberi d’arance nelle Città Libere. Limoni e limette. Pompelmi. Peperoncini piccanti, notti calde, ragazze dall’addome piatto. Dove sono le ragazze dall’addome piatto, ti sto chiedendo?”
“A Lys, Myr, e a Old Volantis,” replicò l’altra guardia. Era un uomo più anziano, con una grossa pancia e brizzolato. “Sono andato a Lys con Lord Tywin una volta, quando era ancora il Primo Cavaliere di Aerys. Braavos é a nord di Approdo del Re, idiota. Non sai leggere una cazzo di mappa?”
“Per quanto tempo pensi che staremo qui?”
“Più a lungo di quanto non vorresti,” replicò l’uomo più anziano. “Se lui dovesse tornare indietro senza l’oro la regina lo farebbe decapitare. Inoltre, ho visto com’é sua moglie. Ci sono scale a Castel Granito da cui non potrebbe scendere per paura di rimanere incastrata, tanto che é grassa. Chi mai vorrebbe tornare indietro da lei, quando hai una regina cinerea?”
La guardia carina rispose. “Non pensi che la condividerà con noi, dopo?”
“Cosa, ma sei matto? Credi che gliene freghi qualcosa di quelli come noi? Quel cazzo di sodomita non si ricordava nemmeno i nostri nomi, la metà delle volte. Forse era differente con Clegane”.
“Il Sir non era tipo da spettacoli teatrali e puttane. Quando il Sir voleva una donna ne prendeva una, ma qualche volta la lasciava a noi, dopo. Non mi dispiacerebbe avere un assaggio di quella Perla Nera. Pensi che sia rosa tra le gambe?”
Grazia avrebbe voluto sentire di più, ma non c’era tempo. La Mano Insanguinata stava per cominciare, e la Dentice l’avrebbe cercata per farsi aiutare coi costumi. Izembaro potrebbe anche essere il re dei Guitti, ma la Dentice era quella di cui tutti avevano paura. Ci sarebbe stato tempo per la sua graziosa guardia più tardi.
La Mano Insanguinata si apriva in un cimitero.
Quando il nano apparì di colpo da dietro una tomba di legno, il pubblico cominciò a sibilare e lanciare maledizioni. Bobono camminò ondeggiando fino al bordo del palcoscenico e li guardò tutti di traverso. “Il dio dalle sette facce mi ha ingannato”, cominciò, ringhiando le parole. “Il mio nobile signore ha reso dell’oro più puro, e d’oro fece i miei fratelli, un ragazzo e una ragazza. Ma io sono fatto di stoffa più oscura, di ossa di sangue e di argilla…”
Nel frattempo Marro era apparso dietro di lui, scarno e terribile nelle lunghe vesti nere dello Straniero. La sua faccia era nera anch’essa, i suoi denti rossi e brillanti di sangue, mentre corna d’avorio spuntavano all’insù dalla sua fronte. Bobono non poteva vederlo, ma le balconate sì, e ora anche la sala. Il Cancello si fece silenzioso come la morte. Marro si mosse avanti silenziosamente.
Così fece Grazia. I costumi erano tutti appesi, e la Dentice era impegnata a far entrare Daena nella sua gonna per la scena della corte, così l’assenza di Grazia non fu notata. Silenziosa come un’ombra, sgusciò nel retro di nuovo, su dove le guardie stavano al di fuori del palco dell’emissario. Ferma in una buia alcova, immobile come la roccia, ebbe una buona visione del suo volto. Lo studiò con attenzione, per esserne certa. Sono troppo giovane per lui? Si chiese. Troppo piatta? Troppo magra? Sperò che non fosse il tipo d’uomo che apprezzava le tette grosse in una donna.
Bobono aveva ragione riguardo al suo petto. La cosa migliore sarebbe se lo portassi a casa mia, averlo tutto per me. Ma lui ci verrebbe con me?
“Pensi che possa essere lui?” quello carino stava dicendo.
“Cosa, gli Estranei ti hanno portato via il senno?”
“Perchè no? È un nano, no?”
“Il folletto non era l’unico nano al mondo.”
“Forse no, ma considera, tutti parlavano di quando fosse intelligente, giusto? Quindi forse si immagina che l’ultimo posto dove sua sorella lo andrebbe a cercare sarebbe in qualche spettacolo teatrale, a farsi beffe di se stesso. Quindi fa proprio quello, sotto il suo naso”.
“Ah, sei pazzo.”
“Beh, forse lo seguirò dopo lo spettacolo. Lo scoprirò da solo”. La guardia mise una mano sull’elsa della sua spada. “Se ho ragione, sarò un lord, e se mi sbaglio, fanculo, é solo un nano”. E scoppiò a ridere.
Sul palcoscenico, Bobono stava discutendo col sinistro Straniero di Marro. Aveva una voce imponente per un uomo così piccolo, e la fece risuonare su fin alle travi del soffitto. “Dammi una tazza,” disse allo Straniero, “così che io possa bere a fondo. E se saprà di oro e sangue di leone, tanto meglio. Se non posso essere l’eroe, lasciami essere il mostro, e dar loro una lezione sulla paura anzichè sull’amore”
Grazia pronunciò le ultime battute assieme a lui. Erano battute migliori delle sue, e adatte all’occasione. Mi vorrà o non mi vorrà, pensò, che lo spettacolo cominci. Pronunciò una silenziosa preghiera al dio dalle molte facce, uscì fuori dalla sua alcova, e balzò dalle guardie. Grazia, Grazia, Grazia. “Miei Lord”, disse, “parlate braavosiano? Oh per favore, ditemi che lo fate”.
Le due guardie si scambiarono uno sguardo. “Cos’è questa storia?” chiese il più anziano. “Chi è lei?”
“Una dei guitti,” disse quello carino. Spinse via il suo ciuffo dalla fronte e le sorrise. “Mi spiace dolcezza, non parliamo il borbottìo”.
Bel pasticcio, pensò Grazia, parlano solo la lingua Comune. Non andava bene. Arrenditi o vai avanti. Non poteva arrendersi. Lo voleva così intensamente. “So la vostra lingua, un poco”, mentì, accompagnandosi col più dolce dei sorrisi di Grazia. “Siete dei Lord di Westeros, ha detto il mio amico”.
L’anziano rise. “Lord? Aye, lo siamo”.
Grazia abbassò lo sguardo ai suoi piedi, era così timida. “Izembaro ha detto di accontentare i Lord”, sussurrò. “Se c’è qualcosa che volete, qualunque cosa…”
Le due guardie si scambiarono uno sguardo. Quindi quello carino si fece avanti e le toccò il seno: “Qualunque cosa?”.
“Sei disgustoso”, disse l’altro uomo.
“Perchè? Se questo Izembaro vuole essere ospitale, sarebbe scortese rifiutare”. Diede al suo capezzolo una strizzata attraverso il tessuto del suo vestito, nello stesso modo del nano quando lei gli stava fissando il cazzo. “I guitti vengono subito dopo le puttane”.
“Può darsi, ma questa é una bambina”.
“Non lo sono”, mentì Grazia. “Sono vergine ora”.
“Non a lungo” disse quello avvenente. “Sono Lord Rafford, dolcezza, e so quello che voglio. Tirati su quelle gonne ora, e appoggiati contro il muro”.
“Non qui”, disse Grazia, togliendosi di dosso le sue mani. “Non così vicino allo spettacolo. Potrei urlare, e Izembaro si arrabbierebbe”.
“Dove allora?”
“Conosco un posto”.
La vecchia guardia si accigliò. “Cosa? Pensi di potertela svignare? E se sua Signoria venisse a cercarti?”
“E perchè dovrebbe? Ha uno spettacolo da guardare. E ha la sua puttana personale, perchè io non potrei averne una mia? Non ci vorrà molto”.
No, pensò lei, non molto. Grazia lo prese per mano, lo portò attraverso il retro, giù per le scale fuori nella notte nebbiosa. “Potresti essere un guitto, se lo volessi”, gli disse, mentre lui la premeva contro il muro del teatro.
“Io?” sbuffò la guardia. “Non io, ragazzina. Tutto quel fottuto parlare, non me ne ricorderei la metà”.
“È difficile all’inizio” ammise lei. “Ma dopo un po’ diventa più facile. Potrei insegnarti a dire una battuta. Potrei”
Le prese il polso. “Farò io l’insegnante.È ora della tua prima lezione”. La tirò contro di sé e la baciò sulle labbra, forzando al sua lingua nella sua bocca. Era tutta umida e limacciosa, come un’anguilla. Grazia la leccò con la sua lingua, quindi si staccò da lui, senza fiato. “Non qui, qualcuno potrebbe vederci. La mia stanza non è lontana, ma sbrighiamoci. Devo essere di ritorno per il secondo atto, o mi perderò il mio stupro”.
Lui sogghignò. “Di quello non aver paura, ragazzina”. Ma si lasciò guidare da lei. Mano nella mano, correvano attraverso la nebbia, oltre a ponti, vicoli e su per cinque rampe di scheggiate scale di legno. La guardia era ansimante nel momento in cui irruppero attraverso la porta della sua piccola stanza. Grazia accese una candela di sego, quindi vi danzò attorno, ridacchiando. “Oh, sei tutto stanco. Mi sono dimenticata di quanto sei vecchio, mio Lord. Vuoi farti un riposino? Sdraiati e chiudi gli occhi, e io sarò di ritorno dopo che il Folletto avrà finito di violentarmi”.
“Non andrai da nessuna parte”. La tirò violentemente a sé. “Togliti questi stracci di dosso, o ti farò vedere quanto sono vecchio, ragazzina”
“Grazia”, disse lei. “Il mio nome é Grazia. Riesci a dirlo?”
“Grazia”, disse lui. “Il mio nome é Raff.”
“Lo so.” Mosse una mano tra le gambe di lui, e sentì quanto fosse duro attraverso la lana dei suoi pantaloni.
“I lacci”, le fece fretta. “Sii una brava ragazza e slacciali.” Invece lei fece scivolare il suo dito al di sotto, lungo l’interno della sua coscia. Lui grugnì. “Dannazione, stai attenta lì sotto, tu….”
Grazia sospirò e fece un passo indietro, la sua faccia confusa e spaventata. “Stai sanguinando”.
“Cos….” Si guardò. “Gli dei abbiano misericordia. Cosa mi hai fatto, piccola troia?” La macchia rossa si sparse lungo la sua coscia, impregnando il pesante tessuto.
“Niente”, squittì Grazia. “Non ho mai… Oh, oh, c’è un sacco di sangue. Fermalo, fermalo, mi stai spaventando”.
Lui scosse la testa, aveva uno sguardo stordito. Quando premette la mano sulla sua gamba, il sangue schizzò attraverso le sue dita. Stava scorrendo giù per la sua gamba, fino allo stivale. Non sembrava più tanto avvenente ora, pensò lei. Sembrava solo bianco e spaventato.
“Un asciugamano”, ansimò la guardia. “Portami un asciugamano, uno straccio, e premilo sulla ferita. Dei. Mi sento la testa vorticare.” La sua gamba era inzuppata di sangue dalla coscia in giù. Quando cercò di metterci sopra il suo peso, il ginocchio cedette e cadde. “Aiutami”, la supplicò, mentre anche il cavallo dei suoi pantaloni si era arrossato. “La madre abbia pietà, ragazzina. Un curatore… Corri e cerca un curatore, svelta!”
“Ce n’è uno nel prossimo canale, ma non verrà. Devi andare tu da lui. Non riesci a camminare?”
“Camminare?” Le sue dita erano viscide di sangue. “Sei cieca ragazzina? Sto sanguinando come un maiale scannato. Non posso camminare con questa gamba”.
“Bene”, disse lei, “Non so come ci arriverai allora”.
“Dovrai trasportarmi”.
Visto? Pensò Grazia. Conosci la tua battuta, e io so la mia.
“Credi?” chiese Arya, dolcemente.
Raff Dolcecuore la fissava con uno sguardo acuto mentre la piccola lama giunse scivolando fuori dalla manica di lei. La passò attraverso la sua gola sotto il mento, la torse, e la strappò fuori dall’altro lato con un singolo movimento regolare. Una sottile pioggia rossa seguì, e nei suoi occhi la luce si spense.
“Valar morghulis”, Arya sussurrò, ma Raff era morto e non avrebbe potuto sentire. Annusò l’aria. Avrei dovuto aiutarlo a scendere le scale prima di ucciderlo. Ora dovrò trascinarlo per tutta la strada fino al canale e buttarcelo dentro. Le anguille faranno il resto.
“Grazia, Grazia, Grazia”, canticchiò tristemente. Una ragazza sciocca e frivola era stata, ma di buon cuore. Le sarebbe mancata, e le sarebbero mancate Daena, la Dentice e tutti gli altri, persino Izembaro e Bobono. Questo avrebbe causato problemi al Signore del Mare e all’emissario con la gallina sul petto, di questo non aveva dubbi.
Ci avrebbe pensato su dopo, comunque. Ora, però, non c’era tempo. Farei meglio a correre. Grazia ha ancora alcune battute da dire, le sue prime e ultime, e Izembaro avrebbe avuto la sua piccola e graziosa testa vuota se fosse arrivata in ritardo per il suo stupro.
***
To be published by Bantam Books; Copyright © 2014 by George R.R. Martin. All rights reserved. This is a fan-made translation: no copyright infringement intended.
Data di pubblicazione: 2014_Ora Rimosso
Fonte: George R.R. Martin’s Website
Traduzione: Marco “IL BorGhO” Borghetti
Editing e prima revisione: Aranel/Mariacristina M.
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